sabato 12 novembre 2011

LACROIX, ASTICE E POMPELMO



Esiste l’arte, esiste chi gode dell’arte, esistono gli artisti e poi, di rado, ma molto di rado, potresti incontrare qualcuno che di per sé costituisce un’opera d’arte. Ancora più straordinario è quel caso in cui questo raro soggetto è anche un artista. A questo punto diventa veramente impossibile scinderlo dalla sua opera e se hai anche l’ardire di ritrarlo non puoi che incontrarlo immerso nelle sue creazioni. A questo punto le domande ti verranno meno e ciò che ti ridurrai a scrivere saranno le tue impressioni, gli odori che rammenti, la morbidezza della luce e l’accompagnamento della musica. Oggi quindi non vi parlerò di una donna, ma di un contagio. Di un magnifico virus di passioni, eleganza, ricordi, propositi, entusiasmo ed inventiva. Ho incontrato un’artista che è anche un’opera d’arte, un sofisticato esempio di stile, uno scrigno di idee e, come vedete, una regina di seduzione. 


Dorothee Heymann non poteva che vivere nella strada dell’arte, dove anche a chi non frequenta i musei questa s’impone dalle vetrine delle vecchie botteghe antiquarie che una dopo l’altra s’affastellano lungo i marciapiedi. L’eleganza e la bellezza non necessitano d’un biglietto da visita. Ti aprono sinuose la porta principale e tu, anche se non le conosci, anche se non le ami, necessariamente sarai rapito. Rapito da uno sguardo, da una mano, dal panneggio di uno scollo, dalle curve di un tacco, dai colori di un quadro, dall’unico arredamento possibile.  Questa è Dorothee o almeno lo è per me. Così che adesso mi resta difficile parlarvi di cosa indossasse, darvi conto, anche brevemente, di chi sia, illustrarvi i suoi quadri, la raffinatezza del suo trucco, la dolcezza della sua cucina.  Ho scattato molte foto e spero che mi aiutino.


Riservata per natura, ama però farsi fotografare ed è chiaro, purtroppo, che io sia il meno esperto ad averlo fatto. E’ nata a Parigi e già questo le conferisce, se ce ne fosse bisogno, almeno in letteratura, un fascino aggiuntivo. “La mia arte - dice - come il mio stile, il mio abbigliamento e la mia cucina, sono di necessità  la sintesi tra Europa e Medio Oriente”. Ha vissuto per molti anni a Tel Aviv, dove ha casa e torna con regolarità, ma la sua città è ormai Firenze. Qui ha gli affetti più grandi e qui dipinge. Del suo stile non parla. “Non ne ho soltanto uno. Non mi affeziono troppo alle cose e quindi cambio spesso modo di vestire”. Dipende, come dico sempre, dalle circostanze, ma anche se l’atro pomeriggio non c’era un’occasione, se non quella di scambiare due chiacchere con me, Dorothee ha palesato la sua versatilità e così potete vederla ritratta in due versioni di se stessa.


Per le prime foto ha indossato un kimono che io definirei rivisto e corretto. Un abito che esemplifica quella sintesi tra culture che tanto la rappresenta. Ha del classico kimono il tessuto, i colori e le decorazioni, ma alle linee comode del Giappone si sostituisce un taglio tipicamente occidentale che segna le curve e magnifica la femminilità. Abbinate a quest’abito delle platform in suede  di Marni. Sulle labbra, l’accessorio a cui non rinuncia mai: il suo rossetto, quindi uno smalto nero. Colore che, per questo autunno, ha sostituito le più fresche tonalità che in genere Dorothee usa in estate. Al collo un pendentif  etnico acquistato in Israele. Dopo qualche scatto ecco lo switch e la mia ospite appare in un abito di Christian Lacroix, uno stilista senza tempo le cui opere hanno la familiarità dell’essenziale e il fascino del lusso più opulento. Un grande collo a corolla che termina in un profondo scollo circolare sulla schiena, ai piedi  decolté vintage di Ferragamo, infine, a incorniciarle il volto, due orecchini di Pomellato in acquamarina. In queste vesti non so perché , ma mi sembra una first lady, una donna che sa reggere le sorti di chi ha in mano quelle di tutti. 


Anche se ritratta tra i suoi quadri non dà l’idea di una che ami troppo la cucina, Dorothee invece si diletta, se pur di rado, ai fornelli. Per lo più ama la convivialità e il prendersi cura degli ospiti. Adora il gesto dell’offerta del cibo e quindi il rito del servirlo. Non cucina spesso, ma quando lo fa cerca, come dice, di non trascurare nulla: “la tavola, il cibo e l’abbigliamento sono tutte arti del sedurre e ognuna di questa sfrutta i colori, le forme, le materie. Certo che c’è connessione tra moda e cucina e se organizzi una cena deve esserci anche sinergia fra le due cose”. Avrei voluto provare qualche suo manicaretto, ma Dorothee era in partenza e quindi sono solo riuscito a farmi dare la sua ricetta dell’astice al pompelmo, prezioso ed elegante, come lei.
Per sei persone: procuratevi 2 astici di circa 1 kg ciascuno, due pompelmi, mezzo limone, due cucchiai di brandy, mezzo bicchiere di vermouth dry, 50 gr. di burro, una manciata di prezzemolo tritato, sale e pepe q.b. In una pentola molto ampia portate ad ebollizione abbondante acqua salata e immergeteci gli astici facendoli cuocere per circa un quarto d’ora, quindi estraeteli e conservateli.  Sbucciate bene i pompelmi e tagliateli in spicchi, metteteli da parte insieme al succo che avranno rilasciato durante la mondatura. In un pentolino versate il brandy, il vermouth e il succo di limone scaldandolo a fiamma media fin quando non si sarà ridotto a metà. A questo punto aggiungete il succo di pompelmo e portate ad ebollizione facendo addensare la salsa. Una volta tolta dal fuoco unite il burro a pezzetti e amalgamate. Tagliate gli astici a metà e sgusciate le mezze code disponendo poi la polpa sul piatto di portata. Salate leggermente, bagnate la polpa con la salsa e guarnite con gli spicchi di pompelmo il prezzemolo e il pepe. Buona cena e buona mise a tutti!


giovedì 10 novembre 2011

BROCANTAGE DI LATTUGA ROMANA E MIELE


Qualcosa è cambiato? No, non per Mariantonietta, o meglio, tutto è cambiato, in fondo questo è anche il suo slogan e il nome della sua attività. Ma per lei, per questa energica, intraprendente, fantasiosa e lungimirante donna non è cambiato proprio nulla perché fin da piccola ha fatto sempre ciò che le piaceva e sempre con ottimi risultati. All’inizio si occupava di costruire case ed abiti alle sue barbie, poi, studiando e continuando a mettere in ciò che faceva lo stesso entusiasmo di quando era piccola, è passata dal compensato ai mattoni ed è diventata un architetto con i fiocchi. Ma la vita non sai mai dove ti conduce e per Marenna, come la chiamano tutti, osare è il primo comandamento. “Ai bambini dovremmo insegnare questo, insegnargli ad osare, a cambiare senza temere perché il mondo così come è lascia molto a desiderare”. E lei, come ha osato?




Semplicemente lasciando da parte i mattoni, infatti, dopo anni che non prendeva un ago in mano è rinato, urgente, il desiderio di progettare abiti. Così, un pomeriggio di febbraio, cucendo per carnevale il costume dell’uomo ragno a suo figlio, Marenna ha lasciato l’urbanistica per dedicarsi alla sartoria rimanendo, come tiene a sottolineare, un architetto: degli abiti appunto. Ma un architetto sui generis: Marenna non va a comperare stoffe e non si preoccupa troppo di ciò che accade nell’olimpo della moda. “Il mio lavoro è determinato da un forte senso estetico – dice – e da un irrinunciabile imperativo etico”. Da qui nascono le sue creazioni, che, non me ne voglia, ma devo chiamare proprio moda. Il riciclo dei vecchi abiti risponde al suo dettame etico e il risultato di questa materia prima (che ha la sua storia e che in parte conserva) sono lo stile e il senso del bello di Marenna. Qualcosa è cambiato allora. Non si butta una camicia solo perché demodé o un pantalone soltanto perché è macchiato. Si smontano, si mixano si reinventano e si dà loro una nuova anima lasciando che mostrino ancora un po’ della loro vita passata. Vi presento l’architetto di abiti Mariantonietta Davoli nel suo atelier dove entra il vecchio per diventare nuovo senza essere totalmente distrutto, ma semplicemente riprogettato, reinventato, come si inventa un costume per carnevale, perché, dice Marenna, “vestirsi significa in larga parte mascherarsi


Quando sono arrivato era alla macchina da cucire con il suo collaboratore Aziz, indossava un pantalone grigio in cachemire dal cavallo basso; sopra, in tono, un lungo gilet ricavato dalla giacca di un completo maschile privata delle maniche, scucita e riprogettata in quest’oggetto del tutto nuovo e dallo stile spiccatamente intellectual chic. Ma non è stato l’unico look con cui l’ho fotografata. A Marenna non mancano di certo capi da indossare! Così si è fatta immortalare anche con un abito, risultato architettonico dell’incontro di un vestito nero svasato e di una mini gonna in lana spinata giustapposta sulle spalle a fare un importante ed elegante collo a cratere. Come accessorio la sua borsa in pelle nera ricavata da una vecchia gonna.



Marenna ricorda la storia di ogni pezzo di stoffa che utilizza e la scrive sulle etichette delle sue creazioni che poi appende alla parete del camerino. Storie buffe e romantiche, come quella di sua zia Natalia che tanta parte ha avuto nel suo percorso, racconti che mi ricordano la cura con cui Amelie trattava la sua vecchia scatola di latta, lo scrigno dei suoi ricordi. La medesima cura però questa progettista dell’abito non la dedica a scrivere ricette. In cucina le piace inventare, ma non ha la stessa fantasia che usa in atelier, non scrive le sue ricette e la annoia a morte la quotidianità dei fornelli. Se cucina per gli amici, invece, in un’occasione speciale, allora la cosa è diversa e mette all’opera tutta la tradizione culinaria italiana e sarda rivista e corretta, non solo sul fuoco, ma anche nel piatto, dalla creatività architettonica. Pensavo, date le premesse, che mi consegnasse una ricetta riccamente articolata, invece mi ha regalato un cammeo, un ricordo d’infanzia, una cosa che quando era bambina le preparava suo padre. Ma, tolto il fattore affettivo, la bontà del risultato e la simpatia con cui Marenna mi ha spiegato il procedimento, vi assicuro, resta poco altro da dire e anche da mangiare!!! Può essere uno spuntino o, se preferite, un simpatico piatto da aperitivo. Io lo ho provato ieri sera. Ero veramente curioso e devo dire che ha il suo perché. Trattasi di
barchette di lattuga romana ben detersa e asciugata, quindi sapientemente impiattata e cosparsa di miele di castagne. Eccovi l’ouverture di una buona cena e a questo punto, sperando che al piatto di Marenna aggiungiate qualche altra cosa per il vostro desco concludo, come sempre, augurando buona cena e buona mise a tutti!



Se volete vedere le crazioni di Mariantonietta: http://www.qualcosaecambiato.it/

venerdì 4 novembre 2011

BACCALA' IN NUANCES BIZANTINE



Per essere vivi si deve avere una passione. Lei coltiva quella dell’archeologia e della storia antica. Una delle figure che più l’affascina è Matilde di Canossa: “donna straordinaria. Libera. Forte. Convincente. Nata al comando”. Nei momenti cupi, invece, si paragona più spesso a Rea Silvia, costretta dallo zio nella castità del sacerdozio, madre di Romolo e Remo, a cui per sorte non toccò di comandare eserciti e imporre la sua volontà, ma di tacere, di essere sepolta viva. Col suo lavoro e per seguire le sue passioni ha abitato in mezzo mondo e ha navigato l’altra metà. Adesso è approdata sull’Amiata, asilo d’esuli respinti, che alcuni potrebbero paragonare alla disperata sepoltura di rea Silvia, ma che per la protagonista di oggi è un porto sicuro, la propria dimora d’elezione da cui fuggire per fare un viaggio, per godersi una mostra o seguire un seminario, ma a cui tornare per ritrovarsi e godersi la fedele compagnia dei suoi cani e dei suoi gatti.


Delle sue eroine incarna molti aspetti e con la madre dei fondatori di Roma ha in comune anche il nome. Vi presento Silvia Giacon. Manco a dirlo veneta. Padovana di nascita e veneziana d’adozione. Nella città dei Dogi ha compiuto i suoi studi di architettura e, come dice, ha avuto la sua liberazione. Qui, si è formato il suo carattere, il suo stile e la sua concezione estetica ancora prima che iniziasse a viaggiare. “Già a 20 anni portavo gonne lunghe e lunghi capelli” e le sue sembianze non sono mutate affatto. Appare come una serafica icona bizantina, i suoi occhi narrano sempre di storie stupefacenti e i suoi abiti la accostano alle sacerdotesse che solcavano i templi antichi. Ma non è soltanto ellenica la sua figura, non solamente bizantina e neanche propriamente indiana. Infatti non è tipo da inquadrarsi tout court con un genere o un’area geografica. Di ogni paese che ha visitato si è portata un aspetto, quindi oggi non vi presento uno stereotipo, una tipologia, uno stile in cui molti possono ritrovarsi, ma semplicemente Silvia.


Silvia ha un amore smisurato per i gioielli, ma li usa con parsimonia. Oggi portava due orecchini, gemelli di un paio appena intravisti, ma troppo costosi da acquistare e quindi riprodotti dalle sapienti mani di un orafo suo amico: due baguette in oro giallo che fanno da sostegno ad un classico cammeo incorniciato in un ovale finemente decorato. Si è presentata all’appuntamento cinta da comode, lunghe, eteree vesti: un soprabito vintage in cotone giapponese, un vecchio top di Gap acquistato in Canada, una lunga gonna dritta di Bottega di Brunella; il tutto rifinito da un accessorio di cui raramente si priva: un’ampia sciarpa, per l’occasione, in garza di cotone. Ha sfruttato tutte le nuances del bianco a partire dalle autoreggenti traforate, passando per i tronchetti, fino ad arrivare alla borsa non trascurando neppure il tono dei suoi occhiali da vista, Epos: rigorosamente tondi come quelli da sole.


Questa moderna sacerdotessa non prepara pozioni magiche, ma, ve lo assicuro, squisiti manicaretti. Nella sua cucina non manca di certo la fantasia. Lei adora cucinare, la diverte, dice, “proprio come vestirmi. Infatti continuerei a cucinare e a vestirmi come faccio anche se fossi sola al mondo, anzi, in quel caso mi metterei a svaligiare negozi e gioiellerie; in particolare una a Venezia che vende solamente antiquariato indiano e poi preparerei i miei pasti in un attrezzatissimo ristorante”. Scrive le sue ricette su un cahier, ne legge di nuove su internet e le sperimenta in continuazione, anche se non ama troppo le tavole imbandite e preferisce le cene informali “con pochi, ma squisiti ospiti”. E’ indecisa sulla ricetta da darmi. Alla fine opta per un classico che spesso le chiedono di realizzare e, dopo averlo assaggiato, posso dirvi che i motivi sono molteplici. Eccovi il baccalà alla vicentina di Donna Silvia alias Matilde, alias Febo, Apollo o chiunque con lei abbia in comune la saggezza dei grandi e la semplicità dei buongustai:



“Per preparare un buon baccalà dovete avere tempo - dice Silvia - questa è la regola d’oro”. Ingredienti per 4 persone: 100 gr. di farina, 2 cipolle bianche, tre acciughe, 2 dl di latte intero possibilmente fresco, 400 gr. di baccalà, mezzo litro d’olio, 50gr. di parmigiano reggiano, sale e pepe q. b. e una manciata di prezzemolo. Battetelo e mettetelo in acqua fredda curandovi di cambiarla almeno ogni 4 ore per 2 giorni. Dovete privarlo della pelle, aprirlo per lungo ed eliminare tutte le lische. Quindi fatene dei quadratini più o meno
regolari di circa 10 X 10 cm. A parte, su un fondo d’olio adagiate il battuto di cipolla e fatela rosolare, a metà del processo aggiungete le alici precedentemente diliscate e spezzettate. Una volta che il composto ha ben rosolato spegnete il fuoco e aggiungete il prezzemolo trito. Inzuppate leggermente i pezzi di baccalà nel soffritto, quindi infarinateli. Prendete una casseruola e adagiate sul fondo un po’ di soffritto, quindi mettete il baccalà impanato e versateci sopra il rimanente soffritto, altro olio, il grana padano, il sale, il pepe e il latte fino a coprire tutto il baccalà. Per un ottimo risultato dovrete far cuocere il baccalà a fuoco lentissimo per circa 4 ore muovendo la casseruola di tanto in tanto e non servendovi di altri strumenti per girare. Servitelo caldo o freddo, ma, come dice Silvia, accompagnato sempre da una gustosa polenta . Buona cena e buona mise a tutti.



venerdì 28 ottobre 2011

VANITAS E ZUCCHINI


Nei suoi tanti viaggi non faceva che acquistare oggetti e materiali senza un reale scopo, poi, un giorno, le pietre, i coralli e le gemme informi, fino ad allora chiusi in un cassetto, hanno iniziato a danzarle in testa e a comporsi in magnifici gioielli. Lei, per assecondare il padre, rigido generale di corpo d’armata, aveva finito per starsene a Pisa a studiare lingue, mentre la sua aspirazione era di avvicinarsi al design tramite l’ architettura; poi si innamorò di suo marito che, “un po’ troppo geloso”, la preferiva a casa intenta a crescere i figli. Alla fine, però, a dimostrazione che quello che deve accadere accade e che i tempi non contano, nel 2007 ha realizzato la sua prima collezione. Oggi l’ho incontrata alle Giubbe rosse con suo figlio. Un duetto affiatato dall’energia contagiosa. Eccoli, dopo una breve intervista e un caffè, mentre coccolano Gina, la cagnolina di una ragazza che, blogger anche lei, non ha saputo resistere a questo strano gruppetto che parlava di gioielli e stilisti mischiandoli a zucchine e uova.


Vi parlo di Donatella e Stefano Calzolari. Mamma e figlio: disordine artistico e ordine scientifico. Lui studia economia e desidera una carriera raggiante, lei dovrebbe essere una casalinga, ma crea gioielli per le mani delle signore più chic. E questo lo deve in larga parte a Stefano che ha insistito perché lei creasse e poi proponesse i suoi lavori. Adesso che il figlio è grande i due sono anche amici,  sentirli parlare, vedere l’intesa che hanno, dà la misura di quanto sia importante, ai fini di tutto, una famiglia unita e, come nel loro caso: ben assortita. Ma questo non significa che abbiano gli stessi gusti. A detta della madre Stefano ama un po’ troppo piacere, così, mentre lei si veste perché adora gli oggetti che indossa e continuerebbe a far così anche su un isola deserta, non si può dire la stessa cosa del figlio.


Il parallelo tra stile e cucina ha convinto poco entrambi, ma del resto spetta a me e a voi lettori rintracciarlo. Donatella afferma di essere “stilista di se stessa e cuoca per forza”. Ha cucinato così tanto per i suoi figli e suo marito che adesso lo fa, ma non ha più la verve di prima. Stefano invece non ama affatto i fornelli e, come dice sua madre, in cucina assomiglia a un bradipo spaesato! Nonostante tutto però entrambi hanno una ricetta da realizzare per il loro partner. Piatti semplici. Stefano si cimenterebbe nelle pennette ai pomodori pachino e Donatella ricucinerebbe per suo marito il piatto che lui le preparò la prima volta: pasta e broccoli.


Per quanto entrambi non vedano collegamenti tra moda e cucina, i loro stili non differiscono troppo dalle loro ricette. Stefano preferisce andare al ristorante, ma anche qui, per quanto cerchi di ordinare cose nuove, non mangia mai in maniera troppo stravagante e del resto veste con una sobrietà ricercata mixando  sapientemente vari stilisti ed ottenendo quello che in cucina definiremmo un piatto della tradizione rivisitato ad hoc. Donatella invece ama gli stilisti giapponesi e la scuola d’Anversa, la sua cucina gode di influenze arabe e siciliane che, come nel caso dei suoi gioielli, fanno di questa donna un unicum di stile.


Ieri Donatella vestiva comoda pantaloni Junya Watanabe in fresco di lana dal taglio ispirato alla marina militare, sopra, una  giacca  Marni in crepe di lana con zip frontale dalla foggia  bon ton chic, ai piedi  platform in suede Fratelli Rossetti, tutto rigorosamente blu navy. Come capo spalla un corto piumino nero dalla smanicatura a kimono e dal collo sciallato anch’esso di  Watanabe, per finire una sciarpa in cachemire di Faliero Sarti raffigurante un dipinto di Mark  Rothko e una neverfull G Monogram Louis Vuitton. Al dito una delle sue creazioni più belle: un anello raffigurante la Vanitas, un meraviglioso teschio scolpito su un corallo di Sciacca e trattenuto al dito da 4 serpenti scintillanti in oro e diamanti neri.


Stefano indossava Skinny pants in cotone elasticizzato Raf Simons, maglione in lana con abbottonatura laterale di alamari metallici Emporio Armani, giacca in pelle nera martellata di Rick Owens, in pendant con la madre una sciarpa Faliero Sarti, stivali in suede tortora Ermanno Scervino e, immancabile accessorio, un classico Rolex submarine. All’altro polso un bracciale, opera di Donatella, raffigurante ancora la mitica vanitas.


Stefano - confermando il giudizio di sua madre - non è stato veloce e neanche preciso nel raccontarmi le sue pennette ai pomodori pachino e quindi, anche per cascare sul sicuro, preferisco riportarvi la ricetta di Zucchine, uva passa e pinoli di Madame Donatella: Per 4 persone vi occorreranno: una cipolla di tropea (quantità variabile a seconda del gusto), 5/6 zucchine chiare, una generosa manciata di uva passa e una di pinoli, quindi olio extra vergine di oliva, sale e pepe quanto basta. Sul generoso fondo d’olio fate cuocere lentamente la cipolla precedentemente sminuzzata, una volta stufata aggiungete le zucchine ridotte a rondelle. A metà cottura unite l’uva passa e i pinoli, quindi coprite e fate cuocere fin tanto che il composto non avrà assunto un colore brunito, aggiungete sale e pepe. Il piatto è pronto, ma, se come quella di Donatella, anche la vostra è una fantasia creatrice, sbattete a parte 2 uova con un pizzico di sale e 2 cucchiai di Grana Padano, cuocete penne per 4 persone, conditele con le zucchine e poi, a fuoco spento unite le uova. Avrete così un’ottima carbonara di zucchine uva passa e pinoli. Buona cena e buona mise a tutti!


Se volete scuriosare tra i gioielli di Donatella: http://www.donatellacalzolari.it

martedì 25 ottobre 2011

CROSTINI WONDERFUR




Un codice segreto, un grande cortile interno, una lunga scalinata, uno stretto ascensore, una serra di piante tropicali, 21 scalini. Superate le prove, eccoci di fronte alla porta di una moderna torre che ospita i tesori di un timido ragazzo, uno sul quale, più che scrivere un post, dovremmo compiere un vero studio. I muri dello stretto corridoio sembrano reggersi sulle cover dei 33 giri che si affastellano fitte ai lati di chi entra e, con le foto appese alle pareti, rappresentano l’ouverture di una serata che sono ansioso di raccontare. Nel sottofondo i Metronomy suonano the bay e mentre il corridoio diventa cucina e le cover pentole su un grande finestrone si vede riflesso il nostro ospite intento ai fornelli mentre sorseggia un ottimo novello. Vi presento Wonderfur: un bear che odiava la barba, un dentista che non scassa i maroni, uno che ha stile e basta, senza ulteriori inutili orpelli, tranne uno, il suo nome: Luca.



La sua casa è lo scrigno delle sue passioni: musica, fotografia, cinema, cucina, taxidermia animale e ancora moda concettuale e design. Un personaggio a tutto tondo, un Artista sui generis che nutre i suoi amici con la propria musica, i suoi piatti e la sua compagnia. Timido, come vi dicevo, ma solo prima di mettersi ai fornelli e di sciogliere la stanchezza socializzando in quello che dopo la consolle è il suo secondo luogo d’elezione: la cucina.



Non è il solito Luca di tutte le canzonette italiane. La sera, da casa sua, non si vede il mare, ma come potete constatare un ferro da stiro, l’ultimo ritrovato fiorentino in fatto di aiuole. Mentre è intento a cucinare risponde disinvolto alle domande assurde che gli rivolgo. Così oggi sappiamo che Luca fa shopping solamente se è felice e soltanto se è solo, che cucina per amore proprio e degli altri, ma anche per rispondere all’esigenza dell’estetica del cibo e della tavola, a suo dire, troppo spesso trascurata. Sappiamo che la sua passione per le scarpe non è un semplice amore, ma è un sapere, una scienza. Mi ha detto che adora le borse, ma che non le indossa, le considera soprammobili, belli oggetti d’arredo; inoltre ha un’attenzione morbosa per la biancheria intima: o mutande monocromo d’ottimo filato o boxer d’autore. Sulle calze poi è categorico: colorate, meglio coloratissime. Moda e cucina per lui viaggiano sullo stesso crinale e qui ribadisce l’attenzione per l’estetica che è anche il trait d’union tra i due mondi, ma non solo, a tal proposito intende lasciare anche un messaggio al mondo (dei miei pochi lettori): “ascoltate la mia musica- dice – vestitevi meglio e mangiate bene”.



Un artista dicevo, un fine conoscitore della musica migliore, ma anche a lui Natura riservò un bel pacchetto di stranezze: in primis è un ottimo dentista, il che cozza con la presentazione da bohémien che fin ora vi ho fatta, inoltre adopera salvia e rosmarino per fare i crostini di fegatini di pollo alla toscana, roba da mettere a disagio un purista come me. Ma fin qui, è tollerabile, mentre diventa quasi alieno quando, interrogato sul vintage chiosa indignato: “lo lascio agli altri”.



Durante la serata, aiutato dal vino, si è cambiato tre volte prima di uscire: costante irrinunciabile  - manco a dirlo -  i tatuaggi e i jeans Acne, paragonabili a un buon soffritto di base. Il suo è uno stile minimal ricercato, uno chic che passa inosservato, come la besciamella nelle lasagne, c’è e deve esserci, ma ben amalgamata al resto. A fare da contrappunto al basic chic si sono alternati un eco-shearling color ghiaccio di Helmut Lang, un gilet imbottito dal taglio militare di Margiela e varie t-shirt Acne. Alla fine si è deciso ad uscire  con indosso una camicia tartan di Zara, un chiodo (unico pezzo che Luca si porta dietro dagli anni 80) e ai piedi delle stringate Prada bordeaux. Varie portate quindi, come quelle che si sono alternate durante la cena e se pure mi piacerebbe fare un’eccezione, mi attengo alle regole, e anche oggi, posto una sola ricetta: la variante dei crostini toscani di fegatini di Dctr. Stevie Wonderfur:




Ingredienti per 4 persone: 350 gr. di fegatini di pollo, 50 gr di capperi sotto sale, mezzo bicchiere di vino rosso 1 cipolla bianca, mezzo gambo di sedano, mezza carota, 2 o 3 acciughe sott’olio, olio extravergine di oliva. Luca aggiunge anche un po’ di salvia e rosmarino, nonché uno spicchio d’aglio che poi toglierà a metà del soffritto. Lavate i fegatini e privateli  della vescicola del fiele (operazione più agevole in immersione di acqua), quindi asciugateli. In una casseruola mettete un generoso fondo d’olio, l’aglio. La salvia e il rosmarino, quindi il battuto che avrete fatto precedentemente con cipolla, sedano e carota. Mentre il battuto rosola, aggiungete i fegatini e lasciateli cuocere fin quando non vi parrà che sia tempo di sfumare con il vino, a questo punto lasciateli cuocere a fuoco medio per una ventina di minuti, aggiungendo all’occorrenza un po’ d’acqua. Una volta cotto, aggiungete le acciughe e i capperi al composto e tritate il tutto con una mezzaluna, un passatutto o un frullatore secondo il vostro gusto. A tavola portate i fegatini di pollo in una salsiera e a parte mettete i crostini ben abbrustoliti. Per chi desiderasse assaporare questo piatto secondo la tradizione toscana, consiglio di spuzzare i crostini con un brodo di carne, spalmarli con i fegatini e servirli su un vassoio da portata. Buona cena e buona mise a tutti!





sabato 22 ottobre 2011

ROTWEIN UND SCHOKOLADENTORTE SULL’ISOLA DEI MORTI




Abita in un ex convento, veste quasi sempre di nero ed è tedesca. Le premesse potrebbero mettere ansia, ma tranquilli, oggi vi parlo di Diane: una tra le ragazze più sexy che conosco, dalla risata contagiosa e dalla bontà congenita. Anzi, spero che il mio blog sia letto anche fuori dalle mura fiorentine, perché in città sono pochi a non conoscerla. E’ spesso l’anima dei locali e comunque, quando c’è lei, il divertimento è assicurato. Vive in Italia da 6 anni, non ho mai visto occhi più belli e non conosco nessun altro che faccia dolci più buoni dei suoi. Ha messo solo una condizione per essere intervistata: “devi fotografarmi al Cimitero degli Inglesi”.



L’isola dei morti, come i britannici chiamano il luogo in questione, è il suo posto preferito a Firenze. Le vecchie derute tombe  sono la cornice perfetta al suo look, un dark in evoluzione tra vittoriano e flappers girls. Ma non sbagliatevi, tutto questo nero serve solo da contrasto al bleu dei suoi occhi e al bianco splendente del suo animo. Un ossimoro. Sarebbe troppo banale infatti incontrala vestita di fuxia e bionda naturale. Bionda naturale lo è. Ma, mentre adora i suoi occhi odia i suoi capelli, quindi li ha sempre tinti di nero o, come ultimamente, di rosso.



Dell’Italia ama tutto tranne ciò che odiamo tutti. In particolare il lavoro rappresenta un problema, “ma le persone che conosco - dice - compensano i difetti di questo paese che, ormai, considero mio”. Diane cucina raramente. Predilige l’estetica del cibo: “se prepari una cena… finisce subito. Tanto lavoro e godi solo mangiando. Se invece fai un dolce ti gusti anche la sua bellezza ed in genere dura per più tempo”. Non ha tutti i torti, se non uno: non ho mai visto durare per più di un’ora un dolce preparato da lei. Nell’impasto ci mette una bella dose di sentimenti e le sue ricette sono il risultato di sapienti prove o dell’esperienza di sua nonna che, a quanto pare, è un portento di pasticcera.



Diane è una collezionista. Non esagero a dirvi che casa sua assomiglia un po’ a quella di Iris Apfel. Ciò che più impressiona è la quantità di gioielleria e bigiotteria, di borse, scarpe e guanti, di foulard, di cose ricercate, di un vintage prezioso: il risultato di una conoscenza e di un amore per la moda che è anche la misura del suo stile. Assolutamente privato, lontano dal gusto collettivo momentaneo e perfettamente appropriato alla sua immagine, al suo carattere. Diane non potrebbe essere differente da come è e così è perfetta. Non che non ami divertirsi a fare rare e calibratissime incursioni nel Punk o nell’elegante classico, ma chi la conosce sa che la sua bellezza trova la massima espressione, come il suo carattere, proprio nelle vesti che le vedete indosso oggi.



Prima di tutto anelli e collane: granato, marcasite e argento caratterizzano questi accessori. Guanti di pizzo nero, un cappellino con veletta realizzato a mano da un artigiano fiorentino, collo di piume “Asos”, una fibbia in vetro nero di fine ‘800 a cingerle l’abito di cui non ricorda la provenienza, una clutch piumata di “Zara” e ancora un portasigarette con le sue iniziali. Per difendersi un po’ dal freddo pungente di ieri un maxy pull in lana e seta nero e un paio di leggins. Il tutto su un vero piedistallo: church’s bianche e nere, stringate e dal modesto tacco.  Spero di avervi ben presentato Diane con quello che, visto il set, è diventato una sorta di shooting!
Ma cosa ha messo in forno per noi questa meravigliosa creatura? Ecco a voi La torta di vino e cioccolato di Froilan Diane che preferisco chiamare in tedesco Rotwein und Schokoladentorte:



Occorrono 250 gr. di zucchero, 200 gr. di farina, 250 gr. di burro, una dose di essenza di vaniglia, una di lievito per dolci, 4 uova, una dose di essenza di cannella, 2 cucchiai di cacao amaro, 125 gr. di cioccolato a latte precedentemente grattugiato, 125 ml. di vino rosso. Fate ammorbidire il burro. In una terrina mischiate energicamente la farina alle uova e allo zucchero, quindi unite il burro e continuate ad impastare fino ad ottenere, con il latte e il vino, un amalgama uniforme. Aggiungete il lievito e non smettete di mischiare, quindi unite la cannella, la vaniglia e il cacao, da ultimo il cioccolato. Terminato l’impasto versatelo in una teglia del diametro di 26 cm precedentemente imburrata ed infarinata. Mettete in forno già caldo a 175° per 50 minuti. A cottura ultimata, per i golosi, è possibile realizzare una glassa di cioccolato da colare sulla torta e una decorazione di nocciole. In questo caso vi occorreranno 200 gr. di cioccolato fondente, 30 gr. di burro e 2 manciate di nocciole tritate. Per la glassa sciogliete a bagnomaria il cioccolato ed il burro, amalgamatelo bene e disponetelo sulla torta con l’aiuto di un coltello. Terminata l’operazione, prima che la glassa solidifichi, fate scendere a pioggia le noci. Buona cena e buona mise a tutti.


mercoledì 19 ottobre 2011

UNA TRIPPA A POIS




Per prima cosa una bella colazione. Una doccia, magari accompagnata da qualche trattamento energizzante. Una lunga passeggiata al mercato, perché occorre tempo per scegliere i giusti ingredienti o per trovare un capo che ti calzi a pennello. Tornata a casa si dedica alla cucina, piatti tradizionali, le piacciono i sapori toscani. Quindi un bel film e poi inizia la preparazione per uscire. Il sabato di Ivana è scandito da rigide tempistiche testate nel corso degli anni e che alla sera le permettono di essere immancabilmente perfetta. Un drink con gli amici e poi in pista fino a tardi!


Mi ha impedito di scrivere la sua età, ma vi basti sapere che la maggior parte delle sue coetanee trascorre il tempo in vestaglia tra un lamento, un ora pro nobis e qualche soap sudamericana. Ivana, invece, esce, balla, parla con i ragazzi, si interessa al nuovo e non conosce la tristezza. “Prima o poi si deve morire, io nel frattempo intendo divertirmi”. Ha lavorato molti anni per la Giunti Editore, considera Firenze la città più bella, ma sta organizzando con gli amici una gita a Budapest, la parola che pronuncia più spesso è “godere” e, stare in società, è il suo elisir di lunga vita.



Sabato avevo appuntamento con la figlia di Ivana, così sono passato da casa loro. Mi ha aperto la porta come la vedete, stava uscendo. Pensando che non avrebbe mai acconsentito l’ho da subito implorata di farsi fotografare. Invece, orgogliosa e ben lieta di finire su Internet, mi ha detto “aspetta solo un minuto che mi finisco il trucco”. Che donna! Adorabile in tutto. Un’anima mondana che è anche una mamma attenta e una cuoca invidiabile. Dice di non amare la cucina, ma so per certo che ai fornelli è un portento.
Era pronta per andare a divertirsi non so in quale balera e mi ha fatto invidia. Il mondo di questa seconda, cosciente, adolescenza mi affascina e vorrei assaporarlo, ma i teenager della terza età sono gelosi delle loro piste e della loro musica o forse temono l’invasione di sbarbatelli che ancora non sanno gustarsi fino in fondo la vita.



Una vistosa parure di zirconi, un lungo filo di perle intrecciato al polso sinistro, e eleganti anelli di famiglia illuminano con le rutilanti decolleté  di strass anni ‘80 un total black interrotto soltanto da una  giacca monopetto sartoriale a fondo nero e pois bianchi in piquet. A completare l’ensemble una mini clutch in vernice nera che contiene l’indispensabile per la serata: il lipstick rosa acceso, le chiavi per rientrare a casa e qualche spiccio, anche se a Ivana non mancherà di certo uno spasimante pronto ad offrirle champagne e caviale.
In totale dissonanza col suo look da viveur e con i suoi gusti musicali (adora Amado mio) appare la ricetta di questa elegante signora che, da ottima buongustaia, ci suggerisce un piatto della tradizione toscana. Ecco a voi la Trippa alla fiorentina di madame Ivana:

Per 6 persone: uno spicchio d’aglio, tre foglie di alloro, mezzo litro di brodo, 30 grammi di burro, una carota, una cipolla, ½ bicchiere di olio extravergine d’oliva, un etto di parmigiano reggiano, pepe e sale q.b., 300 gr. di pomodori pelati, un gambo di sedano, 1 kg. di trippa precotta, 1/2 bicchiere di vino bianco. Affettate la trippa finemente, lavatela ed asciugatela perfettamente, pulite il sedano, la carota e la cipolla, quindi fatene un battuto. In una casseruola soffriggete con l’olio ed il burro l’aglio e l’alloro unendo anche il battuto. Dopo alcuni minuti aggiungete la trippa, fatela cuocere fin tanto che non si asciuga, quindi sfumate con il vino. A questo punto aggiungete i pelati, il sale e il pepe. Fate cuocere la trippa per circa 45 minuti aggiungendo di tanto in tanto il brodo e girando spesso. A fine cottura spolverate con il parmigiano. Fate riposare per alcuni minuti e servite la trippa ben calda. Ivana consiglia ai golosi di mettere in tavola altro parmigiano. Buona cena e buona mise a tutti!